Marco, 44 anni tetraplegico, non ce la fa più.
Mettersi nei panni dell’altro è un esercizio che ci può aiutare a capire cosa faremmo noi nella circostanza che riguarda l’altro. Difficile dire cosa vorremmo se la vita ci avesse riservato la condizione di tetraplegia, ovvero l’impossibilità di azionare il nostro corpo dal collo in giù, pur mantenendoci viva la mente e con essa la nostra biografia che comprende ricordi, relazioni, programmi, emozioni. Tuttavia l’esercizio di cui sopra non è strettamente necessario nel momento in cui dobbiamo ragionare in termini di diritto e l’unico quesito che ci dobbiamo porre, che soprattutto il legislatore deve porsi è se è giusto o meno non consentire ad una persona di decidere sulla propria vita, quando questa vita è per quella persona causa di grave sofferenza.
In Italia il suicidio assistito, cioè l’ assistenza di terzi nel porre fine alla vita di una persona malata, è legittimato, ma non praticato. La sentenza 242/2019 della Corte Costituzionale ha infatti individuato quattro requisiti che possono giustificare un aiuto al suicidio: 1- la presenza di una patologia irreversibile, 2- una grave sofferenza fisica e psichica, 3- la piena capacità di prendere decisioni libere e consapevoli, 4- la dipendenza da trattamenti di sostegno vitale. E’ proprio questo ultimo punto “la dipendenza da trattamenti di sostegno vitale”, che facilita, per così dire la scelta, in quanto rappresenta una condizione alla quale si ha il diritto di opporsi (legge 219/2017 Sul consenso informato e le Disposizioni Anticipate di Trattamento). Dopo il caso di Marco Cappato assolto per aver accompagnato dj Fabo a compiere il suicidio in Svizzera il problema della legittimità e delle modalità per attuare il suicidio assistito, torna alla ribalta ancora una volta con un caso umano: Mario, 44 anni tetraplegico che chiede da oltre un anno di porre fine alla sua vita. L’autorizzazione all’inizio del 2022 è arrivata come pure la scelta del farmaco da utilizzare. Nel momento in cui una persona, avendone I requisiti, prende la decisione di porre fine alla sua vita, sarebbe auspicabile che i tempi non prolungassero la sofferenza dell’attesa, ma forse l’unico modo che un paese civile ha di concedere il suicidio assitito, è quello di valutare il caso singolo. Ciò eviterebbe l’ormai consolidato “turismo della morte” di cui la Svizzera vanta il primato: come tutti I tipi di turismo anche questo ha un suo fatturato. E’ necessario rispettare il diritto della persona di decidere della propria salute e della propria vita, ma occorre farlo con la consapevolezza che l’argomento trattato non può essere assimilato ad altri e che il modello Svizzero improntato al bisness, sta per essere facilmente superato dall’esempio di civiltà del nostro paese. Forse è giusto diffidare dell’ostentata disinvoltura relativamente alla morte: in molti casi non significa infatti accettazione cosciente ma semmai dubbia leggerezza. Questo è il parere di chi scrive.